11 aprile 2019

Fabio grande



Ci separavano 8 anni di età: "Fabio grande", lui, "Fabio piccolo", io. Era così che mia madre, le mie sorelle, e zia Tina, ci chiamavano per distinguerci. Mia madre era cugina carnale di suo padre, zio Orfeo, con cui condivideva lo stesso giorno di nascita, anche se con dieci anni di differenza (29 settembre 1919, zio Orfeo; 29 settembre 1929, mamma). Per questo motivo, Fabio era per me "cugino di secondo grado", anche se per me e le mie sorelle era considerato ben più di un cugino, poiché la lontananza da Capranica e la comune "cattività" romana avevano reso più unite le nostre famiglie.
Nelle bellissime occasioni in cui ci incontravamo, la domenica a pranzo a casa nostra, oppure o a casa sua, era per me una festa. Mi piaceva attraversare tutta Roma partendo da Trastevere, dove abitavamo noi, fino a via Sestio Calvinio, sulla Tuscolana, dove abitava lui. Partivamo abbastanza presto perché l'attraversamento della Città Eterna durava all'epoca qualcosa come circa due ore. Da Trastevere dovevamo prendere il tram 13, oppure il tram 30, fino a Porta Maggiore. I tram con gli autobus dell'ATAC in quegli anni erano ancora in livrea verde, bicolore, con un verdone scuro per la metà inferiore del mezzo, ed un verdino chiaro per la parte superiore finestrata (ricordo che i due colori erano separati da un nastrino bicolore giallo-rosso). Da Porta Maggiore, o a volte dal piazzale delle Ferrovie Laziali, dove arrivavamo dopo aver preso un altro autobus diverso dal tram, il n. 55 (poi 170), prendevamo un secondo tram, savolta di colore blu - chiamato comunemente "trenino" - che dalla Stazione Termini si dirigeva verso Frascati percorrendo la via Tuscolana. Era gestito dalla Stefer, una società diversa dall'ATAC, concessionaria delle linee che avevano destinazione extraurbana, soprattutto in direzione Castelli Romani, analoga alla nostra Roma Nord per le linee che raggiungevano la Tuscia. Entrambe le società, sul finire degli anni '70 sarebbero confluite nella neonata società regionalizzata dei trasporti ACOTRAL (oggi COTRAL). Mi piaceva tantissimo prendere il trenino, perché questo mezzo non correva su una tramvia cittadina, come quella che percorreva viale Trastevere, ma su vere rotaie da treno con tanto di traversine e pietrisco ferroviario. Ero contentissimo e meravigliato perché mi sembrava di stare su un treno senza stare su un treno, tanto che il tram, viaggiando nei tratti lunghi, riproduceva anche lo stesso tipico rumore del suo fratello maggiore... Cose che solo gli occhi e la fantasia di un bambino riescono ad apprezzare...
Arrivati alle estreme propaggini del quartiere Don Bosco, sulla Tuscolana, Roma finiva improvvisamente. Non c'erano avvisaglie di architetture urbane subindustriali che facessero immaginare la fine della Città in quel punto. Semplicemente terminava di netto: fine delle case, inizio della campagna. A sette/ottocento metri da casa di Fabio c'erano gli stabilimenti cinematografici di Cinecittà e la Tuscolana si lasciava dietro di sé gli enormi palazzoni pieni di vita del quartiere diventando nulla più che un semplicissimo nastro d'asfalto, finalmente libero dalle costrizioni della città, che si dirigeva veloce verso Frascati, tra campi verdi e bestie al pascolo.
Fabio era per me un modello. A volte mamma mi faceva arrabbiare quando me lo metteva davanti nelle sue ramanzine. Mi diceva: "Guarda Fabio grande! Lui si che è bravo a scuola". In realtà non ero male neanche io, e lei lo sapeva bene, però mi diceva così per non farmi dormire sugli allori e per stimolarmi continuamente a fare bene e meglio. Cose che i genitori fanno spesso, giusto o sbagliato che sia.
Mi piace ricordare qui una domenica di quelle in cui le nostre famiglie si ritrovavano insieme. In quella circostanza, eravamo noi ospiti a Cinecittà, a casa sua. La Juventus aveva vinto il suo 16° scudetto, campionato di calcio 1974-75 e Fabio, tifoso della Vecchia Signora, aveva un bel poster della formazione campione d'Italia attaccato nella sua cameretta, che trovato in omaggio all'inerno di un numero speciale del Guerin Sportivo, una rivista dal titolo per me misterioso e che avrei imparato a conoscere proprio da quel giorno. Mi fece ascoltare l'inno storico della Vecchia Signora (Juve, Juve) ed io, entusiasta di tutte queste novità, seppure in una famiglia di laziali, divenni per qualche tempo tifoso juventino. Quella domenica, ispirati dai titoli delle vie del Tuscolano, mi parlò di storia, delle guerre puniche, del rostro e di Caio Duilio, e mi fece vedere e soprattutto toccare, i modellini di aerei e di navi che aveva costruito, passione questa per il modellismo che ebbe per tutta la vita.
Si avviava quegli anni verso la maturità. Frequentava l'istituto tecnico industriale, all'istituto "E. Fermi" di Frascati. Ottimo rendimento a scuola, voti e media elevati. Si diplomò con la votazione di 54/60. Mamma diceva che "era un cannone", e tutti quanti a casa mia lo ammiravamo.
Nell'estate del '77 tutta la sua famiglia fu coinvolta in un brutto incidente stradale. Ritornando a casa da Capranica, la domenica sera, intorno alla mezzanotte, Zio Orfeo ebbe un invincibile colpo di sonno mentre percorreva qualche punto non precisato della Tuscolana. La sua Fiat 850 beige si ribaltò dopo aver urtato uno spartitraffico. Tutti e tre in ospedale: Zio Orfeo con un bel buco in testa all'Ospedale dell'Addolorata, zia Tina con il femore rotto al San Giovanni, Fabio con varie ferite sulla fronte e sulla guancia, all'ospedale di Pietralata. Facemmo il giro degli ospedali e andammo molte volte a trovarli e a portare generi di conforto ospedalieri, da biscotti a posate, da pigiami a biancheria. Fabio affrontò una plastica facciale. Fu la prima volta che ne sentii parlare.
Ricordo ancora che un sabato sera dei profondi anni '70, vedemmo insieme, a casa nostra, il primo episodio della mitica serie TV, Spazio 1999... Un sogno lontanissimo.
Dopo le superiori si iscrisse alla facoltà di medicina della Sapienza. Agli esami, subito bei voti, senza tentennamenti o incertezze. Ed io, per imitarlo, a collezionare bugiardini delle confezioni di medicinali, perché tanto, come lui, mi sarei iscritto alla facoltà di medicina. A casa acquistammo anche una enciclopedia medica della Curcio, a fascicoli settimanali. Per ogni esame sostenuto da Fabio, ci arrivava puntuale la notizia, a voce di Zio Orfeo, sul bel voto da lui conseguito. Per uno dei suoi esami (forse per quello di Anatomia?) ebbe bisogno di studiare un cuore di maiale. Tutti noi fummo reclutati per reperirlo e mi pare che venne scovato da mio cognato in una qualche macelleria dalle parti di Montecitorio. Si incontrarono alla metro di Piazza di Spagna per la consegna dell'organo.
Divenne medico nell'84 con la prestigiosa votazione di 110 con lode. Nell'85 prestò servizio militare come sottotenente medico, quasi tutto svolto in una caserma dell'esercito a Maddaloni, in provincia di Caserta. Una sera d'estate di quell'anno ci incontrammo a Capranica, al baretto del "campetto" (oggi Centro Sportivo "Giggi Iezzi"). Lui era in licenza e aveva appena finito una partitella a tennis. Io invece mi ero diplomato da qualche settimana e girovagavo senza meta precisa in compagnia di qualche mio amico. Volle sapere cosa avevo deciso di fare per l'università. "Prendi medicina", mi disse, "quando ti sarai laureato, magari potrò aiutarti a trovare lavoro". Non gli detti ascolto e scelsi altro, anche se il bruttissimo vizio di sentirmi medico ce l'ho sempre avuto. Per un Natale, l'ultimo prima di sposarmi, mi disse - o forse sarebbe meglio dire, mi ordinò - di fare una cosa sensata e costruttiva: "butta via l'enciclopedia medica, non la leggere più". Quella volta gli detti ascolto, e l'enciclopedia medica finì in soffitta dentro uno scatolone con tanto di avviso esterno: non aprire, potrebbe essere pericoloso. E poi il posto a Tarquinia, la specializzazione in gastroenterologia (dopo quella in senologia), l'ambulatorio... Per me un modello da ammirare e seguire... per noi, per tutti noi, un punto di riferimento, un vanto e un orgoglio...
Fabio grande se n'è andato qualche giorno fa, il 2 aprile. Lo stesso giorno del dies natalis di Giovanni Paolo II, lo stesso della morte di nonna Mema. Il giorno dopo, alla Madonna del Pantano, a Civitavecchia, una violenta bufera di vento e pioggia si è abbattuta su di noi durante il suo funerale. Anche la natura sembrava non rassegnarsi alla sua partenza per la casa del Padre. Lo avevo visto per l'ultima volta poco prima di Natale al Campus Biomedico, dove poi sarebbe spirato tre mesi dopo. Era un po' dimagrito. Veniva da giorni di emorragie duodenali che comunque aveva superato. Gliele aveva provocate la chemio. Il colmo per lui, mi disse, era che come gastroenterologo doveva essere curato da gastroenterologi. Lo trovai dimagrito, dicevo, ma con la forza e la grinta di sempre. Un combattente, lucido e consapevole. Era medico, non poteva ingannarsi dandosi illusioni. Ma ha lottato fino alla fine, credendoci, con fede, con speranza. Un vero leone. Come l'immagine che aveva scelto per il suo profilo whats app. Un leone in primo piano, con Gesù Cristo coronato di spine sullo sfondo, e per didascalia un versetto del vangelo di Marco: "ogni cosa è possibile per chi crede" (Mc 9,23).
Ancora una volta per me un esempio e un modello da seguire.


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