22 maggio 2010

Pentecoste

Giotto, la Pentecoste

Tra i tantissimi canti che risuonano nelle nostre chiese durante la Pentecoste, sicuramente quello che ricordo con più piacere è “Pentecoste”, di G. De Lazzaro e P. Manzari. E’ un canto che appartiene alla raccolta di canti delle Comunità Neocatecumenali, dalle quali pure l’ho sentito cantare. Nella mia parrocchia di Roma (I Santi Patroni d’Italia, alla Circonvallazione Gianicolense), e in quella dove abito ora (di un paese del Viterbese), lo eseguivamo un tempo in maniera molto diversa dalla originale versione neocatecumenale, con un 4/4 terzinato in luogo del 4/4 semplice, e con una contrazione dei tempi non cantati tra verso e verso, modifiche che rendono questo canto sicuramente più fruibile, orecchiabile e seguibile dall’Assemblea liturgica. Oltre a questa rivisitazione, un’altra variazione avevamo apportato. Ricordo pure, infatti, che eravamo soliti cominciare il canto dalla prima strofa e non dal ritornello. Ci sembrava più logico dal punto di vista dello sviluppo del narrato, e anche più conforme allo schema classico strofa-inciso-strofa caratteristico della musica leggera, ormai entrata a pieno titolo nella liturgia (che i puristi lo vogliano o no). Ebbene, ripensando in questi giorni di avvicinamento alla festa della Pentecoste al canto omonimo, ho sentito l’esigenza di tornare a leggerlo e ad eseguirlo. La musica – nonostante i quasi quarant’anni di età del pezzo – è tutto sommato ancora attuale, soprattutto se la confrontiamo con quella attualmente utilizzata nella liturgia, e riesce ad essere seguita agevolmente anche da chi ascolta il canto per la prima volta. Dal punto di vista del testo, invece, mi sono interrogato molto su tre o quattro versi che, ad una lettura attenta e più “matura” (mi si passi il termine), hanno subito attirato la mia attenzione. Qui mi voglio soffermare in particolare sull’utilizzo del termine “sepolto”, che gli autori inseriscono nell’ultimo verso della prima strofa. Ma è bene dare una rapida scorsa all’intero testo.

Innazitutto, nella prima strofa questo si sviluppa raccontando gli apostoli, chi sono, da dove vengono, cosa fanno, e li descrive come “poveri uomini”, ricordando il loro stato di umile estrazione sociale (pescatori, esattori delle tasse, “tra loro non c’era neanche un dottore”). Nella seconda strofa si passa invece a descrivere lo stato d’animo di questi uomini, pieni di paura (“avevano un cuore nel petto (...) che una mano di gelo stringeva”) e con la mente rivolta a pensieri umanamente condivisibili (“pensavano (...) all’amico perduto (...) alla donna lasciata sulla soglia di casa, alla croce...”). La terza strofa, infine, è divisa in due parti di quattro versi ciascuna. La prima metà è dedicata alla conclusione dell’azione temporale di cui parla il canto. E così si termina il racconto della Pentecoste descrivendo l’uscita in piazza “a cantare la gioia” dei discepoli che avevano ricevuto lo Spirito Santo, che viene pure descritto come il “vento” che “entrò come un pazzo in tutta la stanza”. Nella seconda metà, invece, l’azione è ormai conclusa e il testo si rivolge direttamente a chi ascolta portandogli la buona notizia che “il mondo che viene migliore sarà”. Ed è in questa direzione, ovvero in quella di chi ascolta, che si rivolge pure il ritornello, col quale si esce temporaneamente dal racconto del fatto della Pentecoste, per invitare l’Assemblea ad aprire i sensi (“ascoltare” e “sentire” il soffio nel cielo, la voce che viene; “vedere” le porte che sono scosse dal vento), per “andare lontano”, animati dalla speranza che alberga solo nei cuori di chi “sa aspettare”.

Ma torniamo al termine “sepolto”. Recita infatti il testo dicendo che “quello che chiamavano Maestro era morto e sepolto anche Lui”. Perché dire “sepolto”? Come non ricordare l’evento sconvolgente della Resurrezione? Eppure, come ricorda Giovanni, i discepoli avevano visto e creduto il primo giorno dopo il sabato (cfr, Gv. 20, 8), e “la sera di quello stesso giorno” (Gv. 20, 19), avevano gioito nel vedere venire Gesù tra di loro. E otto giorni più tardi lo avevano visto di nuovo quando era tornato tra loro per dire a Tommaso di mettere la sua mano sul suo costato per “non essere più incredulo ma credente!” (Gv. 20, 26-29). E benché, come ricorda Giovanni, “non avevano ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti” (cfr. Gv. 20, 9), erano sicuramente coscienti che Gesù non era più sepolto, ma che invece erano stati testimoni di qualcosa di straordinario, anche se non ancora spiegabile se non con il dono dello Spirito Santo che stavano per ricevere. L’uso del termine sepolto, utilizzato qui come participio passato del verbo seppellire, è quindi quantomai inopportuno, anche se lo si volesse forzatamente intendere nella sua accezione di sostantivo, e cioè come sinonimo di dimenticato, scordato, e quindi avvolto nell’oblio del tempo. Ma Gesù Cristo è il centro del tempo, l’alfa e l’omega, il suo inizio e il suo compimento. E questo, pure nella loro umile condizione, lo avevano capito bene i discepoli raccolti ad aspettare la Pentecoste e noi, che stiamo di nuovo per celebrarla. Per questo quel termine “sepolto”, proprio non mi piace. Anche perché tace l’evento fondamentale e salvifico della Resurrezione, e getta un velo di disperazione all’intenzione del canto, che non viene sollevato nemmeno dal refrain e dall’esortazione finale a guardare lontano.
Ecco, comunque, tutto il testo: 


PENTECOSTE
(G. De Lazzaro - P. Manzari, raccoltà «Risuscitò»)

Erano poveri uomini,
come me, come te;
avevano gettato le reti nel lago,
o riscosso le tasse alle porte della città.
Ch'io mi ricordi, tra loro,
non c'era neanche un dottore,
e quello che chiamavano maestro
era morto e sepolto anche lui.

Rit. Se senti un soffio nel cielo,
un vento che scuote le porte,
ascolta: è una voce che chiama,
è l'invito ad andare lontano.
c'è un fuoco che nasce
in chi sa aspettare
in chi sa nutrire
speranze d'amor.


Avevano un cuore nel petto,
come me, come te
che una mano di gelo stringeva;
avevano occhi nudi di pioggia
e un volto grigio di febbre e paura;
pensavano certo all'amico perduto,
alla donna lasciata sulla soglia di casa,
alla croce piantata sulla cima di un colle.

Rit. Se senti un soffio nel cielo...


E il vento bussò alla porta di casa,
entrò come un pazzo in tutta la stanza
ed ebbero occhi e voci di fiamma,
uscirono in piazza a gridare la gioia.
Uomo che attendi nascosto nell'ombra
la voce che parla è proprio per te;
ti porta una gioia, una buona notizia:
il regno di Dio è arrivato già!

Rit. Se senti un soffio nel cielo...



Link:

Il canto "Pentecoste" eseguito dalle Comunità Neocatecumenali su Youtube

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