Don Lorenzo Milani. A quarant’anni dalla morte, chi era davvero il Priore di Barbiana?
“Io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione né riguardo né tatto. Mi sono attirato addosso un mucchio di odio, ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti e di conversazione del mio popolo” (da Esperienze pastorali). Don Milani o si ama o si odia. Capita spesso a chi ha avuto a che fare con Cristo. Capita spesso nelle vite dei santi. Anche se Don Milani, a dire il vero, non lo è ancora. Almeno sugli altari. Perché per i ragazzi che l’hanno incontrato e per molti altri, invece, è davvero un Santo. Certo, un Santo sui generis, ma comunque un Santo. Scrive David Maria Turoldo, nell’introduzione a “Vita del prete Lorenzo Milani” di Neera Fallaci, che “i tipi più difficili nella chiesa sono i santi” perché “sono «testardi» come nessun altro”. Don Milani è stato allora un tipo difficile, un anti-conformista, un libero interiore. Un santo, quindi. Santo e testardo. Come quando, rampollo borghese di altolocata famiglia ebrea fiorentina, chiese di essere ammesso alla prima comunione tra lo stupore dei parenti. O come quando decise di entrare in seminario, dopo aver maneggiato – e letto – per qualche tempo, un libro di liturgia cattolica che aveva preso in mano perché attirato dai colori della Messa. Fu così che in lui, fino ad allora stravagante artista “bohemien” appassionato delle idee architettoniche di Le Corbusier e di Michelucci, si accese improvvisamente la fiammella della fede. Aveva vent’anni e di lì a qualche mese sceglierà di entrare in seminario. Testardo. Perché lo farà con la contrarietà della famiglia, di cui nessun membro sarà presente al rito dell’ammissione (la tonsura). Nel ’47 ne esce prete e viene mandato a Calenzano, come cappellano (vice-parroco), dove cerca di avvicinare i giovani alla Chiesa con l’oratorio, il gioco del pallone e il ping-pong. Proprio come facevano tutti gli altri preti. Presto però si rende conto che con questi mezzi riesce ad avvicinare solo una parte dei giovani della parrocchia. E soprattutto che non si può rincorrere la “concorrenza” – i comunisti – sul suo stesso terreno. “Ed io dunque – scrive su Esperienze Pastorali – m'ero fatto prete per correre verso il male sulla stessa strada e un passo indietro a quel poverino di Giovanni, capo comunista del paese. Se io correrò ancora con lui vorrò stargli sempre un passo avanti”. Si rende conto, cioè, che è la mancanza di un’istruzione a costituire un ostacolo alla evangelizzazione e all’elevazione sociale e civile del suo popolo. Così un bel giorno il pallone e gli attrezzi del ping-pong volano giù dalla finestra, fino in fondo al pozzo che era in mezzo al cortile della canonica, e comincia l’esperienza della scuola serale per giovani operai e contadini. E’ la scuola popolare di San Donato. Ma non sarà quella più famosa. A causa del suo operato non esattamente allineato alla maniera di fare pastorale dell’epoca, Don Lorenzo si attira addosso le critiche della borghesia parrocchiale. In pratica, insegnando a leggere e scrivere ai ragazzi del posto, li rende meno indifesi contro i datori di lavoro di allora, i padroni, che improvvisamente si trovano davanti delle persone in grado di far valere i propri diritti. Il fatto, poi, di accogliere nella sua scuola anche giovani comunisti e sindacalisti di sinistra non viene digerito “in alto”. Così, nell'inverno del '54, Don Milani viene nominato priore di una sperduta parrocchia abbarbicata sul Monte Giovi, nel Mugello: Sant'Andrea di Barbiana. Località irraggiungibile da automezzi (non vi era ancora una strada carrabile), Barbiana era abitata solo da un centinaio di contadini montanari che resistevano all'esodo verso la città. L'intento della curia fiorentina era chiaro: isolare don Milani. Giusta punizione per un sacerdote che non amava le processioni e le feste, e che vedeva nel consumismo, e nelle sue attrattive alienanti, la causa dell'allontanamento dalla Chiesa e dai valori cristiani. Nel disagio più assoluto apre anche qui, come a San Donato di Calenzano, una scuola che inizia alle 8 del mattino e termina a buio. Gli studenti sono pochi ragazzi semianalfabeti, figli di pecorai e contadini. E' questa la scuola popolare di Barbiana. Una scuola che non conosce vacanze e che rifiuta le metodologie e le tecniche d'insegnamento tradizionali, le cui attività saranno raccontate, nel maggio del '67, in “Lettera a una professoressa”. Nel frattempo, nel 1958, la pubblicazione di “Esperienze Pastorali”, aveva provocato l'intervento del Sant'Uffizio, che nel dicembre dello stesso anno ne ordina il ritiro dal commercio nonché “ogni ristampa e traduzione”. Nonostante dal libro emergesse chiaramente la repulsione di Don Milani per il marxismo ateo e materialista, e nonostante la pubblicazione avesse ricevuto dalla curia fiorentina un regolare imprimatur a firma del cardinale di Firenze, Elia Dalla Costa, l'accusa vaticana, sollecitata da una clamorosa stroncatura apparsa su “Civiltà Cattolica”, fu quella di classismo proletario. Da lì in poi, il nome di Don Milani diviene improvvisamente famoso. Come quello della sua scuola popolare, che resterà comunque un'esperienza unica e irripetibile. E fino a quando il 24 giugno 1967, all'età di soli 44 anni, Don Milani morirà in casa della madre in seguito ad un linfogranuloma e una leucemia, i cui sintomi cominciarono già nel dicembre del '60, altri scritti sarebbero stati prodotti, e altre polemiche e discussioni avrebbe suscitato la sua opera. Ma chi è stato Don Milani? Il Priore di Barbiana, che i post-sessantottini additano a profeta della disobbedienza in seguito alla pubblicazione de “L'obbedienza non è più una virtù”, il prete “ribelle”, il prete “rosso”, non è stato niente di tutto questo. E' stato si, a modo suo, un ribelle, ma “obbedientissimo”, pronto a chinarsi dinanzi al suo vescovo nel trasferimento punitivo a Barbiana, e pronto a difendere sempre la sua Chiesa, che chiamava “mamma” o “ditta”, perché solo dai suoi figli poteva essere criticata. «Non mi ribellerò mai alla chiesa – scrive in una lettera – perchè ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la chiesa». Ma Don Milani è stato soprattutto un prete. Un prete che ha incarnato il cristianesimo in maniera integrale, nella povertà e nella verità. Sia pure questa, manifestata con la crudezza delle sue parole sferzanti. Infine una questione: fu comunista Don Milani? Nonostante l'appropriazione indebita della sua figura da parte della sinistra politica, dovuta principalmente all'egemonia culturale degli anni '70, Don Milani non fu mai un comunista. Intrattenne rapporti di amicizia e di stima con chiunque si sforzasse di capirlo e con chi vide nella sua opera e nella sua voce scomoda e profetica, uno straordinario soffio dello Spirito. Fu amico epistolare di democristiani (Giorgio La Pira, Nicola Pistelli), di socialisti (Gaetano Arfè), di liberali (il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi), e di comunisti. A questi (come a “Pipetta”, un sindacalista di Calenzano, o a Nicola Bianchi), non ne risparmiava una con sferzante severità. E anche se era altrettanto ferocissimo con la DC, perché la sua politica buttava i poveri nelle braccia dei comunisti, per lui il comunismo restava comunque “una dottrina senza amore. Una dottrina che non è degna di un cuore di giovane. Avesse almeno realizzazioni avvincenti. Ma nulla. Uomini insignificanti, un giornale infelice, una Russia che a difenderla ci vuol coraggio" (da “Esperienze pastorali”).
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