28 settembre 2012

Tiarno '86



Stasera faccio Segovia! Mi metto una cuperta ll’ane ‘e spalle e sòno ‘a chitarra”.

Nella concitazione che precedeva l’ideazione delle serate, a Tiarno, capitava di sentir dire un sacco di cose. Chi proponeva di fare una scenetta, chi di raccontare delle barzellette, chi ancora, di cantare semplicemente qualche canzone. Tante idee in libertà e tanta confusione. Ma soprattutto tanta tanta eccitazione, di quella che a volte, quando si è costretti in casa da qualche giorno a causa della pioggia, aumenta a dismisura, fino a farsi vera e propria agitazione.
Un altro agosto piovoso come quello del 1986, infatti, non me lo ricordo proprio. Bruttissimo tempo. Sempre a piovere tutto il giorno, dalla mattina alla sera. Per fortuna i key-way! Io e Teresa ne avevamo comprati un paio da Nanda, a due passi dalla grande casa di Tiarno.
Pioggia, freddo, umidità. Fare un campo con quelle condizioni meteorologiche non è certo cosa facile. Soprattutto quello, che sarebbe stato l’ultimo per il nostro gruppo di giovani di A.C.. 
I più grandi tra noi, infatti, avevano raggiunto oramai la “veneranda” età di ventuno anni, qualcuno era partito per il militare ed altri già si stavano inserendo, piano piano, con fatica, nel mondo del lavoro. Quel campo, dunque, non poteva essere come tutti gli altri. Tant’è che prima della partenza, di comune accordo con Don Antonio, gli avevamo addirittura cambiato nome. Anziché come i precedenti, semplicemente “campo scuola”, lo avevamo infatti intitolato - forse un po’ pretenziosamente - “Esperienza”. In pratica la stessa cosa, ma in qualche modo diversa, proprio perché doveva essere un momento forte che ci aiutasse ad uscire da quel bozzolo in cui ci piaceva tanto stare e a diventare delle splendide, colorate farfalle.
La frase di Giggi quindi, buttata lì come sapeva far lui, veniva a  mettere un po’ d’ordine in quel caos generale, facendo intravedere un senso all’imminente tradizionale serata. E senza darci nemmeno il tempo di poterla valutare - sempre se avessimo potuto, magari avanzando una nostra contro-proposta - Giggi continuava a spiegare ciò che aveva intenzione di fare per animare quel dopo cena e renderlo speciale, unico, irripetibile: “Gianni si mette dietro ‘u tavolo, e io faccio finta di sona’ a chitarra. Fa’ do’ tre’ svisiate come sa fa’ lui, e ci divertimo.”.

Lui in quel campo era venuto insieme a tutta la famiglia, ufficialmente per dare una mano a Giulia in cucina. Dico ufficialmente perché non ho mai saputo se davvero fosse questo il motivo per cui Don Antonio lo avesse voluto con noi. Penso infatti che il vulcanico Don, più che un aiuto per le corvè di cucina, si fosse aspettato, dalla sua presenza, quella carica in più che indirizzasse il campo in una certa, desiderata, positiva direzione. In una parola, che gli conferisse – come direbbe schiarendosi bene la voce con un pizzico di commozione – quel “quid” in più. Quel campo doveva in qualche modo diventare una miles stones, una pietra miliare nella nostra crescita, un’esperienza (rieccola) che ci segnasse indelebilmente e ci aiutasse a crescere, a diventare grandi, adulti, per affrontare il mondo. E Giggi, proprio perché ne aveva le capacità, poteva contribuire a quella che come impresa non si annunciava affatto facile.
A completare la “compagnia” tiarnese, infatti, si erano aggiunti alcuni ragazzi della nostra stessa età che non avevano mai fatto parte del gruppo. Inutile dire che, prima della partenza, questo fatto avesse provocato più di qualche malumore e non poche tensioni durante i primi giorni di campo. Piccole cose, poco importanti, ma che non erano passate inosservate all’occhio di uno come Giggi, abituato, per il suo lavoro, a stare a contatto con la gente fino a percepirne gli umori, i bisogni, le difficoltà. Bisognava far scendere quelle tensioni, ricondurle nel loro giusto alveo. Bisognava fare qualcosa.

O Già, fammi fa du’ scalatelle pe’ riscardamento e poi fa’ Giochi proibbiti che ci mimo sopra”. Con la sua eccezionale espressività, Giggi continuava a immaginare, a inventare quello che di lì a poco avrebbe fatto con la divertita collaborazione di Gianni.
La sua era una mimica naturale, carismatica, di quelle che non t’inventi studiando all’Actor Studio, ma che ti ritrovi direttamente nel DNA, alla nascita, come dono di Dio. Se lo guardavi mentre raccontava qualcosa non potevi non vedere anche tu quello che pensava, perché riusciva a materializzartelo davanti agli occhi. Lui parlava e tu, invece di sentire quello che diceva, lo vedevi lì davanti a te. Lo “vedevi” grazie ai gesti delle sue mani, che muoveva ora per battere, ora per disegnare qualcosa, fare dei cerchi, far finta di suonare o semplicemente per tirarsi su le maniche, cosa che del resto faceva spesso (come a dire “diamoci da fa’, cominciamo a lavora’, basta con le chiacchiere”). E lo “sentivi” grazie ai suoi stessi occhi, che muoveva per accentare il discorso o un’idea che gli passava per la mente, quando velocemente, quando lentamente, strabuzzandoli, fessurandoli, oppure allargandoli. Era come se, per definire con un paradosso il coinvolgimento completo di chi aveva la fortuna di interloquire con lui, ti facesse guardare attraverso gli orecchi e sentire attraverso gli occhi.
E mentre parlava, gesticolava, comunicava, noi lo guardavamo incantati, rapiti, affascinati quasi volessimo prendergli qualcosa, farlo nostro, per diventare come lui.
Avrebbe potuto parlare per delle ore e noi saremmo stati lì ad ascoltarlo, a bocca aperta e con il naso all’insù, come i bambini che ascoltano le favole e se le immaginano con gli occhi…

Siete pronti? Iniziamo?”. Come al solito, Don Antonio veniva a ricordarci di rispettare i tempi e di cominciare lo spettacolino serale, mentre gli altri ragazzi arrivavano vocianti, alla spicciolata, nella ex-cappella al seminterrato, per partecipare alla serata.
Tutto era pronto, con le sedie sistemate in circolo davanti all’improvvisato palcoscenico.
Ok, potevamo cominciare.

Direttamente dalla Spagna, di ritorno dalla sua ultima tournee nei teatri di mezza Europa, ecco a voi…”. Solennemente, da par suo, con voce impostata e tra le risate generali, il bravo presentatore Gigino Barcaroli ci annunciava l’ospite della serata: “…nientepopòdimeno che il grande Andrés Segovia!”. Si proprio lui. Il chitarrista classico più famoso del mondo…
Che serata! Fatta con niente in meno di niente: solo Giggi, Gianni, un paio di chitarre, una coperta e tanta fantasia.
Il resto, da qui in poi, si fa struggente ricordo. In ognuno di noi.
Sarebbe banale descriverlo.

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