04 maggio 2020

Compleinfarto

 


Un anno fa, di sabato, alle 17,30 circa, mi trovavo finalmente in reparto. 

Terapia intensiva di cardiologia. Freddo, solitudine. Ansia. 

La mattina presto mi ha svegliato il dolore. Eppure ero a riposo, sdraiato, a letto. Ora mi passa. Si che mi passa. Ma stavolta non passava. Non era come i giorni precedenti, da giovedì pomeriggio/sera, quando mi aveva improvvisamente cominciato a far male il braccio sinistro. La mattina dopo non avevo più niente. Era passato tutto. E la sera del venerdì fino a sera tardi, quando sono andato a letto, non ho sentito nessun fastidio. Tanto che sono andato a recuperare Giuseppe nel locale dove stava a suonare, per portare a casa la batteria. Ma nei giorni precedenti si erano impossessati di me una strana spossatezza, leggero raffreddore, e parecchi episodi di ipotermia. Da non resistere neppure ficcato sotto le coperte a cercare un po’ di caldo. 

Alle 8 decido di andare in ospedale dopo aver sentito (via whatsapp), medico di base e cardiologo. Entrambi mi tranquillizzano ma il secondo mi dice che per precauzione è meglio fare un salto in pronto soccorso. Mi accompagna Teresa, io non guido. Venticinque minuti e vediamo la scura e sinuosa sagoma dell’ospedale. 

E’ abbastanza calmo Belcolle stamattina. Entro, racconto quello che mi sento. Chiedo una sedia. Il dolore sembra essere aumentato. Cercano di tranquillizzarmi:

- Vedrà che non è nulla. Nei giorni scorsi ha avuto febbre?

- Si qualche lineetta, ma con tanto tanto freddo

- E tosse?

- Si, un po’

- Vede? Sicuramente è tutto legato a questo stato similinfluenzale. Comunque le facciamo un tracciato.

Al triage non c’è moltissima gente in attesa. La situazione è tranquilla. L’infermiere mi prepara silenziosamente per l’ECG. Poi finalmente esegue il tracciato, diventa pensieroso, cambia espressione. Prende il telefono e pronuncia la parola fatidica: infarto. La capto, ma resto tranquillo. Mi sembra quasi che non sia riferita a me. Vengo subito spostato in sala visite. Arriva una dottoressa che mi fa un’ecocardiogramma. Anche lei cerca di tranquillizzarmi ma, terminato l’esame, mi conferma, pur cercando di dissimulare, quello che ho sentito dall’infermiere:

- Allora, va tutto bene, non si preoccupi, ma è in atto un infartino (proprio così ha detto)

 Ascolto, non sono rincoglionito per fortuna. E questo mi rincuora.

- Dovrà fare una coronarografia, ma preferiamo fargliela in una situazione tranquilla e programmata. Quindi se tutto va bene gliela facciamo lunedì mattina. Altrimenti, se la situazione dovesse aggravarsi, gliela facciamo d’urgenza.

Misa’ che non ho capito... Perché non me la fanno subito? Ma perché vogliono farmela in una situazione di tranquillità, mi rispondo. E quindi, deduco, che se preferiscono farmela lunedì mattina la situazione non è così grave da richiedere un intervento d’urgenza. Si, si, è così. Dev’essere proprio così. Eppure il dolore aumenta. Mi attaccano al monitor. Si comincia a sentire il bip del battito cardiaco. Impossibile non richiamare alla memoria l’immagine di papà, il giorno di Natale dell’88. Penso che potrei fare la sua stessa fine. Oggi. Eppure la dottoressa mi ha detto che… e cerco di tranquillizzarmi. La pressione segna 160/110.

- Scusi – domando ad un infermiere che passa – il dolore aumenta, che facciamo?

E quello: - Cominciamo subito la terapia.

Si presenta dopo 5 minuti con 6 pasticche e un bicchiere d’acqua e mi fa una iniezione di eparina sulla pancia.

- Appena si libera un posto la portiamo in reparto – mi dice mentre mi attacca una flebo.

Sono le 10,00, e il telefono inizia a bollire. Messaggi, chiamate (a cui non rispondo), persino un paio di vetusti sms di una persona che ancora si ostina ad usare solo quelli. Teresa di fuori ha ricevuto il conforto di Silvia. Appena ha saputo è venuta a farle compagnia.

Non posso muovermi, ho mal di testa, non posso scendere per andare al bagno. Mi danno un pappagallo: - La faccia qui, mi dicono. Ho freddo e lì dentro comincia ad esserci confusione. Sudo. Cerco di dormire, o perlomeno di stare con gli occhi chiusi.

Passa il tempo, ma il dolore sembra stazionario. E’ importante che non aumenti. Arriva il cambio turno delle 14 e abbastanza rapidamente si fanno le 16,30.

- Allora, la portiamo in reparto. Abbia ancora un po’ di pazienza. 

Avviso Teresa di venire in cardiologia.

Sono tutti gentili. Non posso davvero lamentarmi di nulla e di nessuno.

Un portantino mi preleva e cominciamo a viaggiare per i corridoi dell’ospedale. In dieci minuti vedo la porta del reparto. Che si apre davanti a me. Unità di terapia intensiva coronarica, c’è scritto. Nella stanza sono solo. Dopo dieci minuti arriva Teresa, finalmente la vedo e mi vede. Sembra passato un mucchio di tempo da stamattina. Ovviamente non la fanno rimanere. Lascia le mie cose e le sistema velocemente nell’armadietto e nel comodino. Deve andare via. Ci salutiamo, la bacio, mi bacia. Mi verrebbe da piangere ma riesco a trattenermi. Mi aspetta una lunga notte insonne, in cui vedo la morte passare accanto a me per prendersi la povera donna che portano in stanza, nel tetto vicino, alle 22 circa. Alle 6,00 in punto rende l’anima a Dio dopo essersi lamentata e dibattuta forsennatamente per ore, con un viavai continuo di infermieri e medici. Sembrava lottasse disperatamente per rimanere in vita... Rimane lì, esanime, accanto a me fino alle 8,00. 

Nell’alba livida piango, penso a casa, alla mia famiglia, a Teresa, a Sara, a Giuseppe, a tutti gli altri. Mando un messaggio a Don Marcelo, gli racconto velocemente dove mi trovo e perché, gli chiedo se può venire a confessarmi. Mi risponde, sta a Lourdes. Ovviamente non può, lo capisco da solo. Ma se muoio? Se non faccio in tempo a confessarmi?

Il dolore sembra essere sempre stazionario. Il bip del monitor sembra regolare. La testa mi scoppia, sono esausto, sfinito. Finalmente dormo… Mi sveglia il mio nome: "Sei tu Fabio?". E' Don Giuseppe, il cappellano dell'Ospedale. Mi dice che le carmelitane di Vetralla gli hanno chiesto di venire a cercarmi. Mi da' la comunione e piango di nuovo. Gesù è venuto da me. E' lui che è venuto a cercarmi...

La domenica cammina stancamente. Nel primo pomeriggio arriva accanto a me una signora anziana. Si chiama Italia. Il figlio mi dice che le hanno messo due stent. Passa l'emodinamista a visitarla, si ferma da me e mi dice di starmene buono buono. 

- Domani mattina sarai il primo, ma tu non fare scherzi.

- Cercherò di fare del mio meglio - gli rispondo.

Arriva tutta la mia famiglia. Sono contento di vederli. Racconto la nottata, i momenti terribili della fine di quella signora... poi scherziamo, mi prendono in giro, ci abbracciamo. Il tempo della visita vola e passa in un attimo.

Arriva la sera. E' strano, ma a distanza di un anno non ricordo se mi hanno dato qualcosa per cena. I bip sono due. Nella stanza si sente il mio e quello della signora Italia. Penso che domani sarà tutto finito. Spero che domani sia tutto finito. Mi addormento di un sonno molto leggero...

Diarrea notturna. Fastidiosissimo e faticosissimo doverla fare a letto senza poter scendere. La "padella" era un arnese che non avevo mai maneggiato. Le scariche sono più di una. Comincio a temere che non mi possano fare la coronarografia. Mi sento svenire benché io sia sdraiato. Sudore freddo. Cala la pressione. Il cardiologo dice che è colpa della diarrea ma che il tracciato è stazionario. Mi faranno lo stesso la coronaro. Devo stare tranquillo. Ma non sono io che mi agito!

Alle 8 mi portano in emodinamica. A Belcolle si scende di un piano. Mi spiegano l'intervento, mi fanno firmare i fogli del consenso informato. L'emodinamista ha gli occhi chiarissimi, celesti. Spiccano ancora di più da dietro alla mascherina. Anestesia sul polso. Pressione fortissima e dolore cane. L'anestesia come al solito è per me come acqua fresca. Il catetere entra nell'arteria, lo sento risalire lentamente il braccio, passare sotto alla base del collo. Sopra di me schermi rotanti (forse 4?), gravitano sospesi sul lettino operatorio, cambiando continuamente posizione. Cuore che pulsa, rumori elettromeccanici, parole rassicuranti, ma il dolore aumenta improvvisamente sul petto e si irradia sul braccio. 

- Sono io con lo strumento a causarlo, non si preoccupi - mi dice l'emodinamista, un medico sui quaranr'anni dagli occhi celesti come il cielo - abbiamo trovato la coronaria occlusa. Adesso mettiamo uno stent.

Ancora dolore, più forte. E' l'effetto della manovra necessaria a installare lo stent. In quel momento il sangue non passa e il muscolo cardiaco soffre. Qualche secondo, forse un minuto, difficile dirlo, e il dolore comincia a diminuire. - Rimarrà per un po' ma pian piano passerà. La coronaria malata era la principale sinistra. Occlusa al 90%. In pratica mezzo muscolo cardiaco stava rimanendo senza irrorazione sanguigna.

Alle 10,30 sono di nuovo in reparto. Ho freddo, ma comincio pian piano a rilasciare i muscoli del corpo. Sonnecchio. Finalmente mi tranquillizzo. Comincio a pensare che sia tutto finito. Si, si, stavolta è davvero tutto finito.

Sono ancora vivo... 

Rimando a domani le tante domande che affollano la mia mente.

La prima è: perché sono ancora vivo?

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