24 aprile 2021

Acqua ferruginosa (Acquaforte e 'u grottò) - Capranica come la ricordo io. Lessico semiserio di un mondo che non c’è più

La fonte dell'Acquaforte e la fonte Carbona' come apparivano a metà degli anni Settanta

Andare alla fonte ferruginosa dell’Acquaforte era per noi bambini una piccola avventura. La fonte, o meglio, le due fonti, con il piccolo edificio che l’ospitava e tutto il luogo d’intorno, erano infatti piuttosto misteriosi. In verità noi non amavamo moltissimo bere di quell’acqua. Forse perché l’interno del piccolo manufatto era cosparso di muschi bagnati e putrescenti che da terra arrivavano così in alto da ricoprire il muro, fino a circondare, inglobandola, la piccola cannella metallica da dove usciva un esile rivolo d’acqua.

Inoltre, il pavimento era costantemente inzuppato e melmoso, perché l’acqua che vi si depositava non aveva modo di defluire in alcun modo, talché tutto il sito era tutt’altro che il ritratto della salubrità. Sudatissimi dalle eccitanti partite a pallone, preferivamo così bere alla adiacente fonte dell’acqua “Carbona’”, che usciva copiosa e fresca da un cannello ricurvo all’interno di una vaschetta sospesa. 


L'acqua Carbonà (a destra), sgorgava copiosa e abbondante

La fonte dell'Acquaforte

Ci piaceva però giocare, esattamente come avevano fatto i nostri padri e prima ancora i nostri nonni, sotto l’ombra del maestoso albero di cedro del Libano che tutt’ora sovrasta le due fonti, facendo polpette di terra (‘a creta ill’Acquaforte) che avremmo utilizzato come proiettili da jertala (fionda) nelle lotte tra bande di munelli. Ed ovviamente giocavamo al calcio (con tanti calci) nel vicino spiazzo che veniva utilizzato come campo – un vero e proprio tempio del football, un San Siro de noantri – teatro di epiche sfide tra i ragazzi dei quartieri di Capranica. A volte, improvvisavamo con materiali di risulta vari degli improbabili e precari rifugi, sotto i quali ci piaceva mangiare una estemporanea merenda, magari una semplicissima mela “presa in prestito” da qualche orto posto più in la’, sulle pendici meridionali del costone tufaceo su cui sorge il Paese. 





Ma andare all’Acquaforte significava anche raggiungere l’enorme grotta di tufo e pozzolana (‘u grotto’, il grottone) adiacente alla chiesetta della Madonna del Cerreto, per cimentarci in prove di coraggio. Per raggiungerla, a quei tempi bisognava quasi arrampicarsi da dietro l’abside del bel tempietto barocco, e l’avventura si faceva sempre più densa di mistero. Si raccontava infatti che la grossa forra fosse abitata dall’anime sante (fantasmi), e da mostri fantastici e che nelle notti di luna piena fosse addirittura frequentata da un lupo mannaro (‘u lupumenaro), che qui giungeva per bagnarsi dell’acqua delle vicine fonti nonché per godere del fresco della grotta e vincere, in questo modo, la calura che lo attanagliava e di cui era malato (‘lli si fa ‘u male, si diceva). 


L'entrata d'u grotto'





Ci ritrovavamo allora affascinati sull’ingresso dell’antro, che alcuni di noi giuravano aver sentito dire essere certamente profondissimo, fino ad arrivare direttamente nelle profonde viscere della terra, indecisi se spingerci temerariamente al suo interno per esplorarlo, o se tornare a giocare tra le placide mucche pascolanti nel vicino “Campo di Sandra”. Mi venivano allora in mente i fantastici racconti di Jules Verne, come Viaggio al centro della terra, e mi lasciavo rapire dall’immaginazione di come sarebbe stato entrare al suo interno (non l’ho fatto mai fino a qualche mese fa, grazie all'amico Adolfo Cocozza) ed esplorarlo. Ed insieme a tutto il gruppo chiassoso rimanevamo così, beanti nell’incertezza, fino a quando proprio nel momento in cui ci convincevamo ad entrare vincendo la paura, l’ululato o l’urlaccio di qualche nostro compagno più smaliziato, introdottosi nel frattempo nella grotta senza farsi accorgere, non ci costringeva ad una corsa frenetica, scapicollandoci giù, verso la chiesetta, per scendere velocissimamente verso le fonti ed il cedro, e poi imboccare in salita – forsennatamente come i cavalli senza fantino del palio di Ronciglione – la strada della Mattonara, e andare su… su… su… letteralmente senza fiato, fino a raggiungere l’agognata salvezza nel quartiere di Vallesanti. 


La "mattonara", a metà degli anni Settanta

Qui mostri e lupi sparivano di colpo poiché la vita del quartiere, indifferente alla nostra avventura, continuava a scorrere nella più assoluta normalità. Ci sembrava quasi di esserci provvidenzialmente svegliati dopo un brutto sogno, accaldati, sudati, eccitatissimi, ma con la voglia di raccontare ai nostri genitori e ad altri nostri amichetti l’esperienza che avevamo vissuto. Anche se, nella quotidiana e piatta normalità di cui spesso è fatto il mondo dei grandi, non sempre trovavamo qualcuno disposto ad ascoltarci. E soprattutto a crederci.

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