“‘ncuminciate a’dduna’ a’le mano, a’le mano. Ogni secchietto 50 lire”. Questi erano gli ordini dei nostri genitori all’inizio della stagione di raccolta delle nocciole, quando non esisteva ancora quella esasperata tecnologia che caratterizza oggi l’intera filiera della nocciolicoltura. Il momento della raccolta, in particolare, era vissuto un po’ come un rito nel quale si ritrovava non solo tutta la famiglia, ma una comunità intera. Gesti ripetuti e consueti che si riproducevano – in fondo come oggi, se non fosse che alcuni di essi sono ormai soppiantati dalle macchine – esattamente uguali in ogni noccioleto, secondo un protocollo non scritto, ma consolidato e generalmente accettato in maniera tacita in base all’esperienza quotidiana.
E
così, si cominciava ad adunare – una ad una – le nocciole cadute sul terreno, raccogliendole
con fatica ma con allegria all’interno di grandi secchi di plastica (erano ideali
quelli che contenevano la tinta murale) che poi, una volta pieni, venivano riversati
in sacchi di juta – ‘e balle, le
balle – oppure direttamente al centro di grandi teli stesi al sole, per
favorire l’asciugatura del prodotto. Si “addunava”
per molti giorni di fila essendo possibile effettuare la raccolta solo per
piccole porzioni giornaliere di terreno. A meno che non si poteva disporre di numerose
“opre” (op’re, contrazione di opere),
ovvero di braccianti assoldati a giornata, soprattutto donne, che i grandi
proprietari terrieri erano invece soliti utilizzare fino ad autunno inoltrato
(in certe stagioni particolarmente inclementi, si giungeva addirittura alle
soglie dell’inverno). I piccoli proprietari, come noi, si federavano invece in consorzi
parentali con i quali affrontare insieme la stagione della raccolta. Era questo
l’antico e diffusamente praticato sistema del renn’opre (rendere le opere), secondo il quale tutti i membri della
compagine raccoglievano l’intero compendio dei terreni posseduti dalla famiglia
allargata. E a nocchie, si cantava. Chini sul terreno, si intonavano stornelli
romaneschi, canzoni del momento e canzonacce da osteria. Il tempo passava così
un po’ più lieto e tutto sommato anche la fatica veniva sentita molto di meno. Era
in questo ambito di parentela che a noi ragazzini piaceva cimentarci nella gara
del riempimento dei secchietti. Questi ci venivano compensati dai nostri
genitori o dai parenti per cifre all’epoca esorbitanti, tanto che ci trovavamo
ad addunare
nocciole per ben 25/50 lire a secchietto. Appena finita la stagione della
raccolta (‘a nocchiatura), quando
saremmo ritornati a scuola, fissamente ed invariabilmente il primo giorno del
mese di ottobre fino al 1977 (quando l’allora ministro della Pubblica
Istruzione, il democristiano Malfatti, si attirò parecchi improperi dai
capranichesi per aver anticipato al 20 settembre l’inizio delle lezioni), con
quei soldini guadagnati raccogliendo palline con la buccia di legno, ci avremmo
comperato qualche figurina per la collezione del campionato di calcio che era
appena cominciato, oppure una confezione di colori, o qualche bel fumetto da
leggere nei piovosi e freddi pomeriggi invernali.
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