28 marzo 2022

Un po’ di chiarezza sulla guerra Russia-Ucraina: il diritto internazionale, l’ONU, la NATO, l’art. 11 della Costituzione Italiana


Russia-Ucraina. Credo che sui social (ma anche altrove) si stia perdendo la bussola. Ricorro quindi al sacro Conforti e agli altri testi dell’esame di Diritto Internazionale (pur sempre validi, perché nonostante siano passati – ahimè – ormai molti anni questa branca del diritto non ha subito particolari stravolgimenti) per chiarirmi le idee. Soprattutto per non farmi influenzare nel costruire un’opinione equilibrata e oggettiva.

L’aggressione all’Ucraina

E’ questo un chiaro ed inequivocabile atto di guerra con il quale la Federazione Russa ha violato il Capitolo VI della Carta delle Nazioni Unite. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 51 della stessa Carta, rimanendo il Consiglio di Sicurezza “ingessato” a causa del veto posto dalla stessa Federazione Russa (membro permanente del Consiglio quale paese vittorioso della Seconda Guerra Mondiale), l’Ucraina esercita legittimamente il suo “diritto naturale di autotutela”, combattendo per la sua sopravvivenza. In questo quadro dunque, altrettanto legittimamente, l’Ucraina chiede aiuti in armi e sostegni economici a tutta la Comunità Internazionale.

L’autodeterminazione e indipendenza delle repubbliche del Donbass

Indipendenza e autodeterminazione dei popoli sono concetti che vanno capiti sia dall’ampio punto di vista politico, sia dal più ristretto ambito del diritto internazionale. Innanzitutto il diritto internazionale considera gli insorti, come privi di soggettività di governo e di diritto, “ma solo dei sudditi ribelli – afferma Benedetto Conforti – nei confronti dei quali il Governo c.d. legittimo può prendere i provvedimenti che considera più opportuni”. Ergo, tra questi provvedimenti, anche la loro soppressione attraverso l’uso della forza (il cui monopolio esclusivo, secondo la più tradizionale concezione del diritto pubblico, è in capo allo Stato). Pertanto l’Ucraina ha dovuto utilizzare la forza contro i secessionisti del Donbass, come qualsiasi altro paese al mondo avrebbe potuto e dovuto fare nei confronti delle sue minoranze, qualora l’unità statuale fosse stata messa in discussione dall'atteggiamento delle suddette. Minoranze che, secondo Conforti – “non sembra (…) assurgano a soggetti di diritto internazionale, sia pure limitatamente ai diritti loro riconosciuti”. Tuttavia, se “i ribelli riescono a costituire (…) un’organizzazione di governo che controlla effettivamente una parte del territorio, allora – scrive il Conforti – si è di fronte ad una forma sia pure embrionale di Stato alla quale la personalità non può negarsi”. E la faccenda si complica, perché il Donbass si sta avviando appunto su questa china. Resta tuttavia da vedere effettivamente “quanto” questo stato di cose dipenda dalla manipolazione russa e quanto, viceversa, rispecchi una volontà di autodeterminazione del popolo russofono che abita in quelle terre. Riguardo, quindi, l’autodeterminazione dei popoli del Donbass, c’è da distinguere il punto di vista politico, più legato alle opportunità geopolitiche ed economiche, ovviamente molto labile e indefinito, da quello del diritto internazionale. I due significati del termine sono assai distanti dando per assodato che, giuridicamente, non è richiesto che, secondo il Conforti, “tutti i Governi esistenti sulla terra godano del consenso della maggioranza dei sudditi e siano da costoro liberamente scelti (c.d. autodeterminazione interna)”, mentre dal punto di vista politico si tende “a considerare l’autodeterminazione come sinonimo di democrazia (…) intesa nel senso di legittimazione democratica dei Governi”. In questo quadro assistiamo per esempio alla presenza di minoranze in Italia (Alto-Adige, Valle d’Aosta, Sardegna, Sicilia subito dopo la Seconda Guerra Mondiale); in Francia (Corsica); in Spagna (Galizia, Catalogna, Paesi Baschi); in Gran Bretagna (Irlanda del Nord). Non per questo, però, si può parlare di autodeterminazione di tali minoranze. Perché il principio giuridico di autodeterminazione “si applica soltanto ai popoli sottoposti ad un Governo straniero (c.d. autodeterminazione esterna), in primo luogo ai popoli (ormai pochi) soggetti a dominazione coloniale, in secondo luogo alle popolazioni di territorio conquistati ed occupati con la forza”.  E’ il caso dell’Afghanistan dopo l’occupazione russa del 1980, della Cambogia dopo l’occupazione vietnamita, dei territori palestinesi occupati da Israele, dell’Iraq occupato dalla coalizione internazionale nel 2003 e fino al 2005. Tra l’altro in alcuni dei paesi europei sopra richiamati abbiamo anche assistito, in passato, all’uso della forza da parte dei Governi legittimi contro frange armate ben definite di stampo separatista/indipendentista. Va considerato, poi, che “affinché il principio di autodeterminazione (…) sia applicabile, occorre che (…) la dominazione straniera non risalga oltre l’epoca in cui il principio stesso si è affermato come principio giuridico, ossia oltre l’epoca successiva alla fine della seconda guerra mondiale”. E siccome il principio di auto-decisione (non di autodeterminazione), è stato inserito per la prima volta nella Carta dell’Onu (San Francisco, 26 giugno 1945), in diritto internazionale non si fanno risalire istanze di autodeterminazione che abbiano fondamento precedente, ad eccezione per i paesi oggetto di dominio coloniale delle potenze europee. Pertanto, alla luce di questi principi, l’Ucraina sta lottando per mantenere viva la sua libertà di auto-decisione contro la coercizione di uno stato terzo, la Federazione Russa, che gli impedisce un pieno esercizio di tale diritto (impedimento a scegliere alleanze militari, impedimento a scegliere alleanze economiche), con la scusa di salvaguardare l’autodeterminazione di minoranze russofone. Se il punto di vista della Federazione Russa fosse legittimato, domani l’Alto Adige potrebbe chiedere aiuto all’Austria, la Corsica all’Italia, i Paesi Baschi alla Francia (o forse no), l’Irlanda del Nord all’Irlanda. Ma qui stiamo nel campo della fanta-geopolitica.

L’Italia che “ripudia la guerra” e la NATO

Dopo la devastante Seconda Guerra Mondiale, i Costituenti vollero inserire nella Carta Fondamentale della nascente Repubblica Italiana il principio secondo il quale il nostro paese “…ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11 Costituzione). E’ chiaro che, pur senza voler a tutti i costi addentrarsi nell’esegesi del testo, risulta evidente che il tipo di guerra cui la Costituzione si riferisce è quella offensiva e di aggressione. Si voleva evitare, con un occhio al ventennio precedente, che l’Italia si rendesse nuovamente responsabile di guerre di aggressione, come quella nei confronti dell’Etiopia, della Francia, della Grecia o dell’Unione Sovietica. La relazione accompagnatoria all’art. 11, che risale al 1947 e che servirà per il voto dell’Assemblea Costituente, afferma infatti:

«Rinnegando recisamente la sciagurata parentesi fascista l'Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Stato indipendente e libero, l'Italia non consente, in linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli. Contro ogni minaccia di rinascente nazionalismo, la nostra costituzione si riallaccia a ciò che rappresenta non soltanto le più pure tradizioni ma anche lo storico e concreto interesse dell'Italia: il rispetto dei valori internazionali».

Per cui il ripudio alla guerra è fatto sempre salvo in condizioni di reciprocità fra i popoli, mentre non trova implicita applicazione nel caso di difesa da una guerra di aggressione nei nostri confronti. Si ammette dunque la possibilità che – proprio per il principio di auto-decisione/autodeterminazione dei popoli sancito nella Carta dell’ONU – l’Italia possa rispondere con la forza ad una aggressione dall’esterno e quindi partecipare – obtorto collo – ad una guerra di difesa del territorio nazionale e della stessa sua sopravvivenza come entità statuale.

Ma nella seconda parte dell’articolo 11 della Costituzione, si afferma anche che l’Italia consente “…alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Ed è questa seconda parte che legittima l’adesione all’ONU, alla NATO e alla stessa UE (per la cui normativa l’art. 117 della Costituzione sancisce addirittura un rango di superiorità sulla normativa italiana).

E la rinuncia deliberata e consapevole a una quota di sovranità relativamente ad alcune scelte di politica estera e di politica di difesa, corrisponde all’esercizio da parte della NATO di provvedere alla difesa comune degli alleati, secondo l’art. 5 della Carta Euroatlantica ed il principio del “tutti per uno, uno per tutti”, di d’artagnanesca memoria.

Da questo punto di vista il deliberato aumento delle spese militari fino al 2% del PIL rientra pertanto nel quadro di questa porzione di sovranità affidata all’ente sovra-nazionale NATO, responsabile della sicurezza degli stati aderenti all’Alleanza.

Alcune conclusioni

Dal punto di vista del diritto internazionale mi sembra abbastanza chiaro, dunque, distinguere tra chi abbia ragione nella crisi in corso e chi, invece, torto. Da una parte, l’Ucraina sta lottando per la sua sopravvivenza e usa tutto ciò che è in suo potere per guadagnare alla propria causa partner internazionali in grado di aiutarla finanziariamente e militarmente. Compresa la maratona di proclami del suo presidente, le frasi ad effetto con le immagini mentali evocative, che lo stesso Zelensky abilmente padroneggia, i discorsi davanti ai parlamenti di tutta Europa. Dall’altra, c’è invece la Federazione Russa che sta portando avanti una politica imperialista manu militari fondata sul ristabilimento delle posizioni geopolitiche precedenti alla fine della Guerra Fredda, e cioè a prima del 1989, e sull’intimidazione dei paesi limitrofi che non devono neppure accettare caramelle dagli sconosciuti se non dalla stessa Federazione Russa.

Tuttavia, avrei gradito che l’Italia avesse gestito questa crisi in maniera meno supina rispetto a quanto proclamato giornalmente dagli Alleati occidentali ed europei; che avesse giocato un ruolo da comprimario (a fronte delle numerose telefonate di Scholz e Macron con Putin, il nostro presidente del consiglio non ci ha ancora parlato e forse – sottolineiamo, forse – lo farà solo nei prossimi giorni); che si fossero utilizzati toni meno accesi e guerrafondai; che non si fosse lasciato il boccino delle dichiarazioni – alcune delle quali quantomeno imprudenti – ai soli tecnocrati prestati alla politica, Draghi per primo; che i politici eletti in parlamento e leader dei partiti si dimostrassero meno “schizofrenici” (con quelli di sinistra, tradizionalmente legati al pacifismo, oggi più spostati verso un maggiore attivismo militare e quelli di destra, un tempo più vicini all’idea della nazione forte, timorosi e frenanti, pieni di se e di ma).

Soprattutto mi sarebbe piaciuto che l’Italia si fosse distinta tra quei paesi che propugnano un’idea di convivenza tra le nazioni non più basata sull’adagio romano del si vis pacem para bellum, sulle alleanze militari contro le quali nascono altre alleanze militari, su una politica di riarmo improntata a precise percentuali di PIL, ma sulla progressiva riduzione delle spese militari e sul pacifico rispetto dei principi di convivenza tra i popoli.

Qualcuno dovrebbe prima o poi cominciare ad incamminarsi su questa erta china - tanto ardua quanto "profetica" - per aprire la via ad altri. 

E perché, quindi, non l’Italia?

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