07 giugno 2021

Chariot of fire

Centro sportivo L'Incontro, sabato 17 gennaio 1986

Ci risiamo. Sono di nuovo al Pronto Soccorso di Belcolle. Di nuovo dolore al petto. Indossando la fastidiosa mascherina anti-COVID (anti?), siedo nella sala d'aspetto insieme ad altri pazienti in attesa di visita. Scorro alcune foto dal drive per ingannare il tempo e mi soffermo su una in particolare. E' un sabato di gennaio del 1986 e siamo ritratti al Campetto prima di una partita di calcio. Nel pomeriggio eravamo stati a casa di Teresa per il suo compleanno (20 anni!). Non eravamo ancora fidanzati... né ci pensavamo. C'è con noi Don Manuel Garcia. Siamo davvero seri in questa foto, pur non essendolo nell'abbigliamento, molto alla come viene viene. Avevamo vent'anni, chi più, chi meno. E così mi viene alla mente quella meravigliosa immagine di giovani atleti che corrono sulla spiaggia tra gli spruzzi delle onde, immortalata magistralmente da Hugh Hudson nel film "Momenti di gloria". Una sequenza di straordinaria essenza poetica che fa pensare a questi ragazzi come a tanti cavalli liberi di esprimere la loro forza e la loro giovinezza, con il vento che li accarezza in faccia mentre guardano dritto, davanti e lontano, verso un futuro luminoso e imperturbabilmente sereno. 

 

Nulla fa pensare che i giorni che verranno non riservino a tutti quei giovani - che nel film si stanno preparando alle Olimpiadi di Parigi del 1924 - ciò che davvero sognano e desiderano di più. Ed in effetti i due coprotagonisti vinceranno l'oro nei 100 e nei 400mt., afferrando così il loro chariot of fire, il loro momento di gloria. D'altronde chi non ha mai sognato momenti di gloria per sé stesso e per i suoi amici più veri? Ogni volta che vedo quelle immagini, in quelle occasioni in cui vengono riproposte dalla TV, accompagnate dalle note di Chariot of fire, ovvero da quel popò di colonna sonora tutta elettronica scritta da Vangelis, non posso fare a meno di non pensare ai miei sedici/diciassette anni, a quel tempo in cui, cioè, con i miei amici immaginavamo chissà quale futuro radioso per noi stessi. Lo facevamo con molta spontaneità e semplicità nelle sere dopo cena, sdraiati alla Quercia a guardare la via Lattea, le stelle, i pianeti e a indovinarne i nomi, o nei caldi pomeriggi d'estate durante le passeggiate a piedi al Sambuco per una panzanellata con tutto il nostro gruppo. Lo facevamo in saletta a Santa Maria o al Cinema Vecchio ascoltando la musica che ci piaceva di più, e lo facevamo anche mentre per divertirci ci piaceva terribilmente indossare un completaccio da calcio di colore arancione che chissà per quali vie era giunto fino a noi. Una maglia che indossavamo sempre con molto orgoglio e che sembrava darci una specie di "patente" di giovani calciatori, anche se nessuno di noi frequentava le scuole calcio del tempo. D’altronde, come si sa, l'abito non fa mai il monaco. La maglia, di un cotone talmente spesso e pesante che non era davvero un piacere indossarla, aveva cucita sul petto la sigla "M10" , ed era diventata la "nostra" maglia, ossia qualcosa che ci identificava e che ci univa, non solo sul polveroso fondo del Campetto, ma anche fuori di esso, nella nostra vita, tutto sommato molto spensierata, di giovani adolescenti. E così, quando riguardo l'immagine immortale dei giovani atleti inglesi che corrono a piedi nudi su quella spiaggia infinita con in sottofondo le sognanti note di Chariot of fire, è come se d'un colpo ritornassi a vivere quei fantastici anni della giovinezza, giocando a sostituire con l'immaginazione gli attori di quel film con coloro che a quel tempo correvano con me verso i momenti di gloria della nostra vita. Durante quella corsa non c'è nulla che possa spaventarci. Perché siamo davvero degli inarrestabili carri di fuoco a cui niente e nessuno può impedire di toccare i traguardi più belli. Scalpitiamo come giovani puledri che mordono il freno, sentiamo distintamente la forza che muove i nostri muscoli, riempiamo profondamente i nostri polmoni di aria pura e di speranza. I nomi di quei ragazzi vestiti di arancione sono Massimo, Giuseppe, Giggino, Luigi, Gianfranco e Fabrizio, Carlo, Peppe… e altri ancora. Ognuno di loro ha un posto insieme a me su quella spiaggia, nella nostra corsa inarrestabile verso la vita. Non ha senso pensare che non sarà così. Perché poi, certo, in realtà il futuro non è stato tenero con tutti… Ma l'incoscienza dell'età non fa immaginare simili eventualità e tende automaticamente a scartare ogni imprevisto ed ostacolo tra noi e la nostra meta. Ed è proprio questo ciò che conta e che è straordinario: la sprezzante e coraggiosa sfida al futuro che la giovinezza porta con sé, incurante della ragione e della prudenza, e che ha davvero un sapore eroico. Poco importa, poi, se l'M10 - così si chiamava quella specie di squadra - era una compagine poco più che scalcinata. Se al massimo ci ritrovavamo a giocare mischiati tra noi, divisi nelle due parti del campo, e se quelle rare volte in cui giocavamo con altre squadre (ricordo le sfide, per noi epiche, con il Villa Paola o con il Comune di Capranica), ne uscivamo quasi sempre sconfitti. Perché per noi l'M10 era una specie di sogno, da cui ci siamo svegliati solo una fredda sera di gennaio del 1986. Quando d'improvviso ci accorgemmo di essere diventati grandi e di esserci ormai proiettati in solitaria, e non più insieme, verso le nostre vite future, alla ricerca dei nostri personali Chariot of fire.

Nessun commento:

Posta un commento

Ciao! Grazie per aver lasciato un commento su Hic et Nunc!